(di Franca Maria Vanni) Una sera della fine di novembre del 1817 un “pizzicagnolo”[1], tale Giuseppe Scalzi, giocava a carte in un’osteria della città. Non era una serata fortunata e dopo qualche partita aveva perso tutto il denaro che aveva in tasca. Nella speranza di poter recuperare la somma persa, chiese di fare un’ultima partita ed il suo avversario acconsentì. Dal momento che non disponeva di altro contante, il “pizzicagnolo” dette come garanzia tutta la merce che si trovava all’interno del suo negozio. Poiché la fortuna quella sera gli aveva girato le spalle, il “pizzicagnolo” e il vincitore della partita, in base alla consuetudine che i debiti di gioco vanno pagati entro ventiquattro ore, lo avvertì che il mattino seguente sarebbe venuto a ritirare la merce che si trovava all’interno della “pizzicheria” come saldo del debito. Il mattino seguente il nuovo proprietario delle derrate alimentari giunse al negozio dello Scalzi, ma lo trovò chiuso e dopo alcuni giorni nei quali aveva tentato invano di rintracciare il proprietario, si rivolse alla polizia. Quest’ultima rintracciato il pizzicagnolo lo costrinse ad aprire il negozio e sequestrò tutta la merce. Tra prosciutti, formaggi, salamini e barili di acciughe vi era anche una cassa contente dei fogli di carta all’apparenza simile a quella oleata che da un lato aveva stampati dei buoni sui quali era indicato il valore e il nome dell’ente che li aveva fatti produrre, la Banca di Lucca; mancavano solo le firme dei responsabili dell’emissione. Questo fatto lasciò molto sconcertati i gendarmi. Nella prima metà del XIX secolo a Lucca non esistevano banche nel senso moderno del termine, ma solo due istituti creditizi locali fondati e gestiti rispettivamente da Giuseppe Francesconi e da Cosimo Giorgetti[2] che concedevano prestiti ad artigiani o agricoltori, per migliorare la propria attività.

[1] Ho preferito utilizzare il termine toscano “pizzicagnolo” con il quale si intende un venditore di formaggi salumi e altri generi alimentari, perché tale parola è quella utilizzata nei documenti archivistici esaminati per ricostruire la vicenda.

 

L’articolo continua su “AIC Magazine” Anno II, N.4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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